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Giurisprudenza

Dichiarazioni del contribuente nel corso del controllo

di Antonio Iorio
Nel corso dei controlli fiscali operati nei confronti dei contribuenti, Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane possono acquisire informazioni e verbalizzare le relative risposte. Tuttavia, devono anche rispettare una serie di garanzie poste dalla legge a tutela degli accertati, tra le quali la legittima riserva ad opera del contribuente di rispondere nei termini previsti dalla legge, ovvero in non meno di quindici giorni. Si tratta di circostanze che devono essere tenute ben presente dai verificati, in quanto in grado di condizionare le successive fasi dell’accertamento.

Durante il controllo fiscale rappresenta prassi consolidata dei verificatori acquisire informazioni direttamente dal contribuente al quale vengono formulate specifiche domande sull’attività svolta.

È il caso, ad esempio, della richiesta delle percentuali di ricarico applicate nella vendita dei beni, degli sconti praticati ai clienti, delle quantità di materie prime necessarie per la preparazione di determinati prodotti, delle abitudini dei clienti, delle modalità di conduzione dell’azienda, ecc.

Le risposte vengono così verbalizzate e, di sovente, sono successivamente utilizzate per ricostruire i ricavi ritenuti effettivi rispetto a quelli inseriti nelle dichiarazioni Iva e dei redditi del contribuente.

Tali richieste trovano la loro legittimazione negli artt. 32, D.P.R. 22 settembre 1973, n. 600 e 51, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 rispettivamente in materia di imposte sui redditi e di Iva.

In base a queste due disposizioni, sostanzialmente analoghe, gli uffici possono, tra l’altro, invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento nei loro confronti.

Ne consegue che l’operato dei verificatori volto ad acquisire informazioni dirette presso i contribuenti sottoposti a controllo è assolutamente in linea con le norme vigenti.

Tuttavia entrambe le norme fiscali citate, che attribuiscono queste facoltà al Fisco, prevedono:

il preavviso al contribuente (gli inviti e le richieste devono essere fatti a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento o notificati secondo un’altra modalità rituale)
la possibilità (che è un diritto del contribuente e non una discrezione dell’Ufficio) di farsi rappresentare da un terzo delegato;
soprattutto che, a fronte delle richieste, il contribuente deve fornire risposte entro un termine non inferiore a quindici giorni.
Pertanto nel momento in cui i verificatori pongono quesiti al contribuente, egli può legittimamente riservarsi di rispondere nei termini previsti dalla legge e quindi in non meno di quindici giorni.

Questa circostanza va tenuta ben presente perché in genere alcune delle successive rettifiche nell’atto di accertamento si basano proprio sui dati e le informazioni fornite dal contribuente, spesso in modo affrettato, impreciso e senza riscontri obiettivi.

Valore delle dichiarazioni del contribuente

Le notizie rese dal rappresentante legale dell’impresa in sede di verifica secondo giurisprudenza consolidata (cfr. per tutte: Corte di Cassazione 15315/2013), rappresentano una confessione stragiudiziale e quindi costituiscono prova diretta e non indiziaria nei confronti dell’impresa, non bisognevole di ulteriori riscontri.

Nella specie, ad un’impresa, a seguito di una verifica fiscale svolta dalla Guardia di finanza era contestato un maggior imponibile desunto da alcuni appunti contenuti nella documentazione extracontabile rinvenuta presso l’impresa e dalle dichiarazioni rese dal rappresentante legale dell’azienda.

A seguito dell’avviso di accertamento era proposto ricorso accolto dalla Commissione provinciale. Il successivo appello dell’Amministrazione era respinto dai giudici di secondo grado.

In particolare, nella sentenza di primo grado era data evidenza al fatto che le dichiarazioni del rappresentante legale non avevano alcun significato sotto il profilo probatorio; nella pronuncia di appello era poi precisato che le prescrizioni normative per poter procedere e formulare le varie tipologie di rettifiche erano state nella specie disattese.

Il successivo ricorso per Cassazione è stato invece accolto. I giudici di legittimità hanno rilevato che il rinvenimento della documentazione extracontabile, legittimamente reperita, costituisce elemento probatorio, ancorché meramente presuntivo, mentre le dichiarazioni rese in sede di verifica dal rappresentante legale dell’impresa, sottoposta al controllo, non assumono contenuto testimoniale in virtù del rapporto di immedesimazione che lega il rappresentante alla società.

Tale rapporto esclude la classificazione del primo quale testimone; queste dichiarazioni, invece, possono essere apprezzate alla stregua di confessione stragiudiziale, costituendo non prova indiziaria, ma diretta del maggior imponibile, non abbisognando di ulteriori riscontri.

Questo consolidato orientamento giurisprudenziale deve far molto riflettere circa il comportamento che i contribuenti, e coloro li rappresentano, tengono nel corso delle verifiche fiscali.

Spesso, in virtù di un paventato rapporto sereno tra verificatori e azienda che faciliterebbe quantomeno la speditezza del controllo, al rappresentante dell’impresa vengono chieste notizie e informazioni molto delicate (ricarichi, sfridi, valore rimanenze, calcoli vari, ecc.) che, come chiarito dai giudici di legittimità, equivalgono a confessione, impedendo, in molti casi, qualsivoglia futura difesa.

Necessità del preavviso

Come evidenziato in precedenza, nel momento in cui i verificatori pongono quesiti al contribuente, egli può legittimamente riservarsi di rispondere nei termini previsti dalla legge e quindi in non meno di quindici giorni.

Le vigenti disposizioni fiscali se, da un lato, consentono ai verificatori di formulare richieste dirette ai contribuenti sugli accertamenti nei loro confronti, dall’altro impongono il rispetto delle garanzie di cui si è detto. Sotto questo profilo le norme appaiono decisamente chiare e, per la verità, non risultano interpretate in modo differente.

La questione, sicuramente più controversa, riguarda invece le conseguenze giuridiche dell’inosservanza da parte dei verificatori di tali garanzie. Si pensi al caso in cui non venga concesso il termine dei 15 giorni per la risposta, o ancora, il contribuente venga convocato in ufficio «personalmente» per consegnare dei documenti e, in quell’occasione, vengono posti quesiti e verbalizzate le relative risposte.

Non esiste un’espressa previsione di nullità ovvero di inutilizzabilità delle informazioni così acquisite, nonostante l’evidente violazione della norma. In genere, per situazioni abbastanza analoghe (ad esempio, violazione delle regole sull’accesso presso la sede del contribuente da parte dei verificatori), la Suprema Corte ha subordinato l’invalidità dell’atto, per l’inutilizzabilità di quanto acquisito in violazione di una norma di legge, solo ove vengano violati diritti costituzionalmente garantiti. In caso contrario, i giudici di legittimità ritengono che l’accertamento sia valido: il contribuente, ove ritenga scorretto l’operato dei verificatori, potrà agire nei loro confronti con gli ordinari strumenti di tutela (richiesta danni, responsabilità disciplinare, e, nei casi più gravi, eventuali violazioni penali).

In tale contesto si segnala una recente pronuncia della Ctp di Reggio Emilia (sentenza 38/2017) secondo cui è illegittimo il comportamento dell’Agenzia delle Entrate che sottopone a sorpresa il contribuente ad interrogatorio e dalle sue risposte determina una serie di dati ed informazioni poste a base della successiva rettifica.

Si tratta infatti di una palese violazione del principio di affidamento e buona fede che è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l'attività legislativa ed amministrativa, con la conseguenza che le informazioni così acquisite dall’Amministrazione non sono utilizzabili e il conseguente accertamento è invalido.

Nella vicenda esaminata dalla Ctp di Reggio Emilia, l’Agenzia richiedeva ad un fornaio di consegnare personalmente documentazione fiscale. Al momento della consegna al contribuente gli veniva sottoposto un questionario precompilato con richiesta di risposta immediata.

Sulla base delle risposte relative alla resa della farina, e di alcuni documenti prodotti, l’ufficio ricostruiva induttivamente i ricavi. Secondo i giudici reggiani, la Corte di Cassazione (sent. 9308/2013 e 21513/2006) interpretando l’art. 10, co. 1, dello Statuto dei diritti del contribuente , relativo alla buona fede che deve animare i rapporti tra contribuente e Amministrazione, ha ritenuto che la tutela del legittimo affidamento del cittadino, trovi origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., espressamente richiamati dall'art. 1 del medesimo Statuto.

Tale principio è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l'attività legislativa ed amministrativa.

Ne consegue che l’Agenzia, procedendo all’interrogatorio del contribuente, pur non avendolo informato, ha violato il principio di buona fede cui è tenuta. A maggior ragione nel caso esaminato, in cui il contribuente era stato invitato esplicitamente, a presentarsi personalmente, e l’Agenzia aveva già predisposto le domande (quindi sapeva di doverlo «interrogare»). Così tutte le informazioni ottenute dalle risposte sono state considerate inutilizzabili.

Presenza di indizi di reato

Nel corso di controlli fiscali eseguiti sia dalla Guardia di finanza sia dall’Agenzia delle Entrate o delle Dogane, può verificarsi che emergano indizi di violazioni costituenti reato (di norma tributario). Si pensi al caso dell’accertamento di emissione – piuttosto che di inserimento in dichiarazione – di fatture false, o di omessa presentazione della dichiarazione, o di dichiarazione infedele nel momento in cui le contestazioni mosse dai verificatori superano determinati importi e quindi si supera la soglia penalmente rilevante.

A questo proposito l’art. 220 delle disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie del Codice di procedura penale, dispone che quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale, sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale.

Da evidenziare che la norma fa riferimento ad «indizi di reato» e, quindi, l’obbligo previsto si perfeziona in un momento antecedente al manifestarsi della comunicazione di notizia di reato al Pubblico Ministero; quest’ultimo, infatti, si pone in relazione ad una fattispecie criminosa sufficientemente determinata nei suoi principali elementi oggettivi, anche se non nel dettaglio, mentre l’indizio di reato presuppone che, sulla base di uno o più fatti già rilevati, sia presumibile desumere l’esistenza di un reato.

Alle medesime conclusioni giunge anche la Circolare 1/2008 della Guardia di finanza sull’attività di verifica fiscale.

L’emersione di indizi di reato nel corso del controllo comporta così la necessità in buona sostanza che la successiva attività venga svolta con modalità proprie del procedimento penale.

Ne consegue, ad esempio, che ove sia già individuato il soggetto cui si riferiscono gli indizi stessi, questo deve essere posto nelle condizioni di esercitare le garanzie difensive previste dal Codice di procedura penale; pertanto, nel caso in cui sia necessario eseguire un atto per cui è prevista la presenza del legale, egli dovrà essere invitato a nominare un difensore di fiducia e, nel caso in cui rinunci a questa facoltà, occorrerà provvedere alla nomina di un difensore d’ufficio.

Inoltre, gli atti di assicurazione degli elementi probatori o comunque riferibili al fatto-reato in relazione al quale sono emersi gli indizi, devono essere compiuti secondo le forme e le procedure disciplinate dal codice di procedura penale.

Onde evitare equivoci va evidenziato che l’attività di controllo fiscale non viene interrotta, ma ove dovesse esserci la necessità di effettuare determinate attività per le quali il codice di rito prevede le garanzie difensive, sarà necessario che esse siano assicurate.

È il caso ad esempio dell’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, nonché delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. Quando si procede a tale atto, la persona deve essere invitata a dichiarare o a eleggere domicilio per le notificazioni.

Ed ancora l’assunzione di sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini: la persona ha l’obbligo di presentarsi e di rispondere secondo verità alle domande che le sono poste, ma non può essere obbligata a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale.

Potrebbe poi esservi la necessità di acquisire plichi sigillati o altrimenti chiusi: in tal caso essi devono essere trasmessi al pubblico ministero per l’eventuale sequestro, ma se vi è fondato motivo di ritenere che i plichi contengano notizie utili alla ricerca e all’assicurazione delle fonti di prova, che potrebbero andare disperse a causa del ritardo, informa, col mezzo più rapido, il pubblico ministero il quale può autorizzare l’immediata apertura.

L’eventuale inosservanza di queste regole e delle altre previste dal Codice di procedura penale, possono essere rilevanti ai fini dell’inutilizzabilità nel procedimento penale delle attività poste in essere successivamente all’emersione degli indizi di reato.

Nella prassi, non sempre i verificatori osservano tali accorgimenti: in genere, si tende a far coincidere l’emersione degli indizi di reato o del fatto penalmente rilevante l’ultimo giorno del controllo quando viene redatto il pvc e quindi allorché tutta l’attività di controllo è terminata.

Di fatto così le garanzie difensive assicurate dal codice procedura penale non vengono osservate (perché riguarderebbero un’attività svolta precedentemente).

Al contrario, esse sono del tutto irrilevanti ai fini fiscali, con la conseguenza che non possono determinare alcuna censura in sede amministrativa.

Restano ferme ovviamente, sotto questo profilo, le eventuali cause di invalidità degli atti amministrativi proprie dell’ambito tributario: mancato rispetto del contraddittorio, violazione del termine dei 60 giorni dopo la chiusura delle operazioni, ecc.

Va detto poi che eventuali atti o documenti relativi al procedimento penale possono essere utilizzati anche ai fini fiscali previa autorizzazione che i verificatori devono chiedere all’Autorità Giudiziaria.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale l’eventuale assenza o ritardo di detta autorizzazione, non rende inutilizzabile il documento in questione nell’ambito dell’accertamento o del processo tributario, in quanto essa è posta a garanzia del segreto delle indagini penali e non a tutela del contribuente.

Giurisprudenza

La Corte di Cassazione è spesso intervenuta sulla questione dell’asserita inosservanza delle garanzie difensive previste dal Codice di procedura penale nel corso di un controllo fiscale, non fornendo sempre un’interpretazione univoca circa le conseguenze della mancata osservanza. Alcune volte infatti i giudici di legittimità hanno ritenuto non utilizzabile nel procedimento penale tutti gli atti compiuti senza tali garanzie e quindi l’intero atto all’uopo redatto (normalmente pvc), altre volte hanno limitato l’inutilizzabilità alla specifica attività e non all’intero atto redatto.

Secondo quest’ultima interpretazione è necessario poi verificare se l’inutilizzabilità di quella determinata acquisizione sia sufficiente a minare l’eventuale giudizio di colpevolezza emesso nei confronti del contribuente.

Si segnala, a questo riguardo,la sentenza 4919/2015 secondo la quale qualora emergano i predetti indizi di reato nel corso del controllo, occorre procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 in questione. In caso contrario, la parte del documento redatta successivamente, non può assumere efficacia probatoria e quindi non è utilizzabile (cfr. Cass. 6881/2009).

I giudici di legittimità hanno poi precisato che la norma si applica per i reati tributari anche se l’eventuale superamento delle soglie di punibilità può essere riscontrato solo verificando i risultati complessivi dell’accertamento.

L’osservanza dell’art. 220 è infatti connessa all’emersione di indizi di reato e non della prova del delitto. È sufficiente che vi sia una concreta probabilità che il reato sia stato integrato.

Da notare che, a questo proposito, riguarda il frequente caso di reati collegati al superamento della soglia di punibilità la circolare citata della Guardia di finanza, che giunge a conclusioni differenti rispetto alla pronuncia di legittimità: infatti, secondo il predetto documento non si può configurare un «indizio di reato» solo perché, teoricamente, potrebbero essere superate le soglie di punibilità, ma soltanto la compiuta verifica, in concreto, del loro superamento permette di ritenere integrata, immediatamente ed istantaneamente, la relativa fattispecie delittuosa.

Da segnalare poi la pronuncia delle SS.UU. «penali» (sentenza 45477/2000), secondo cui , affinché scatti il meccanismo garantistico di equiparazione del procedimento amministrativo a quello penale previsto dall’art. 220 non è necessario che gli indizi di reato emersi siano soggettivamente orientati sulla persona verificata, essendo sufficiente l’emersione in termini meramente oggettivi di indizi di reato, dovendosi intendere per tali non già gli elementi indicati come prova indiretta (art. 192, co. 2, c.p.p.), ma semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile penalmente.

Più in particolare, se nel corso di un’attività di verifica fiscale, si procede ad acquisire dichiarazioni da una persona nei cui confronti sono ormai emersi indizi di reità, deve necessariamente trovare applicazione la disciplina dettata dal Codice di procedura penale in tema di interrogatorio ed acquisizione di sommarie informazioni.

Pertanto, deve essere assicurata, ad esempio, la presenza del difensore. In caso contrario, tali dichiarazioni sono processualmente inutilizzabili (per tutte, Cassazione, sentenza n. 38858/2016).

Nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte, era svolta dalla Guardia di finanza una verifica fiscale nei confronti di una società, durante la quale erano emersi indizi di reità a carico degli amministratori.

Veniva così applicata dal Gip la misura del sequestro preventivo per equivalente sui beni degli indagati. Il provvedimento veniva confermato anche dal Tribunale del riesame.

La difesa presentava ricorso per Cassazione, lamentando, tra le altre cose, l’inutilizzabilità dell’accertamento fiscale compiuto dalla Guardia di finanza e del pvc conseguente, per violazione dell’art. 220 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale.

Infatti, una volta che i verificatori avevano riscontrato indizi di reato, avrebbero dovuto proseguire il controllo applicando le garanzie previste dal Codice.

Nella specie, invece, i militari avevano assunto informazioni da parte degli indagati, senza procedere nelle forme previste per l’interrogatorio, e dunque in violazione degli artt. 64 e 350 c.p.p. La parte del documento redatta successivamente all’emergere degli indizi di reità era dunque inutilizzabile processualmente.

A tal proposito, gli artt. 64 e 350 c.p.p. prevedono delle garanzie stringenti.

La prima disposizione (Regole generali per l'interrogatorio) stabilisce che prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che:

le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso;
se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone.
L’art. 350 c.p.p. (Sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini) dispone invece che, prima di assumere sommarie informazioni utili per le investigazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, la polizia giudiziaria la invita a nominare un difensore di fiducia e, in difetto, ne nomina uno d’ufficio.

Le sommarie informazioni sono assunte con la necessaria assistenza del difensore, al quale la polizia giudiziaria dà tempestivo avviso. Il difensore ha l’obbligo di presenziare al compimento dell’atto.

La Corte di Cassazione, a tal proposito, ha affermato che non è controvertibile che quando si proceda ad acquisire dichiarazioni da una persona nei cui confronti erano emersi ormai indizi di reità, dovrà necessariamente trovare applicazione la disciplina dettata dagli artt. 64 e 350 c.p.p., sicché in caso di violazione di tali disposizioni il contenuto delle dichiarazioni rese sarà inutilizzabile.

La pronuncia è molto significativa poiché, di norma, i verificatori della Guardia di finanza e dell’Agenzia, qualora nel corso del controllo emergano indizi di reato, non assicurano alcuna garanzia difensiva a favore del contribuente fino al termine dell’ispezione, limitandosi poi a inviare il pvc o l’accertamento alla Procura. Ciò accade anche nel caso in cui il contribuente/indagato abbia rilasciato delle dichiarazioni a suo sfavore.

La Cassazione ha dunque chiarito che tali dichiarazioni – assunte senza tutela del soggetto controllato – non potranno essere utilizzate nel procedimento penale.



Cassazione Sez. III penale, 19994/17
In presenza di una sentenza tributaria di merito, anche non definitiva, viene meno l’esistenza del profitto del reato e quindi il sequestro; al contrario permane il vincolo nel caso di sola pronuncia di sospensione dell’atto impugnato. Così la Corte di cassazione, sezione III penale, con lasentenza 19994 depositata ieri.

Nell’ambito di un procedimento per dichiarazione infedele, veniva disposto dal Gip il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su alcuni beni del contribuente, misura cautelare confermata dal riesame. Nel ricorso l’indagata evidenziava che l’accertamento era stato sospeso dalla Commissione tributaria, in base all’articolo 47 del Dlgs 546/92 . E di conseguenza risultava inesistente il profitto del reato, e quindi il sequestro non aveva più ragione di essere mantenuto.

La Cassazione ha respinto il ricorso, rilevando che i requisiti per la sospensione nel processo tributario sono il danno grave e irreparabile e la probabile fondatezza del ricorso. La sospensione ha efficacia limitata, fino alla decisione nel merito e pertanto non incide sulla sussistenza dei requisiti per disporre il sequestro. Nella specie, la Ctp si era limitata a sospendere l’esecutività dell’atto senza fornire una motivazione precisa. Secondo la Suprema corte solo lo sgravio da parte dell’Agenzia o l’annullamento della pretesa fiscale decisa dai giudici tributari, anche in via non definitiva, possono far venire meno il profitto del reato e quindi incidere sul sequestro.





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